Abbiamo bisogno di contadini,
di poeti, gente che sa fare il pane,
che ama gli alberi e riconosce il vento.
(Franco Arminio)

La villa abbandonata, conosciuta come “Villa del Mezzadro”, porta con sé un nome che, a ben guardare, sembra tradire la sua vera natura. Non si tratta, infatti, della parte destinata ai braccianti o ai mezzadri, ma della sezione nobile della villa, un luogo che conserva ancora oggi un’aura di eleganza decaduta, lontana dall’umile realtà contadina evocata dal suo nome. Se consultiamo il vocabolario Treccani, la parola “mezzadro” viene definita così: «Contadino (o più esattamente il capo della famiglia colonica) che lavorava un podere, associato al proprietario con il contratto di mezzadria ora abolito». Un termine che ci riporta al mondo rurale, fatto di fatica e di legami profondi con la terra.
Questo nome, “Villa del Mezzadro”, ha immediatamente risvegliato in me un ricordo d’infanzia: il film “L’albero degli zoccoli” di Ermanno Olmi, un’opera che ho visto da bambina e che ancora oggi considero un vero capolavoro. Inserito tra i 100 film italiani da salvare, “L’albero degli zoccoli” racconta la vita di un podere nella campagna bergamasca alla fine dell’Ottocento, seguendo le vicende di quattro famiglie contadine. Tra queste storie, una in particolare mi è rimasta impressa: quella del piccolo Mènec, un bambino sveglio e intelligente che un giorno torna a casa con uno zoccolo rotto. Suo padre, non potendo permettersi un nuovo paio di scarpe, decide di abbattere di nascosto un albero per costruire un nuovo zoccolo per il figlio. Un gesto semplice e commovente, che racchiude tutta la dignità e la resilienza di un mondo in cui il poco che si aveva veniva condiviso e trasformato con ingegno.
Il film, girato interamente in un casolare abbandonato scoperto per caso dal regista mentre attraversava le campagne lombarde, ci regala uno spaccato autentico della vita contadina. Attraverso episodi di lavoro nei campi, veglie nel pagliaio, preghiere e amori, Olmi ci racconta un’esistenza scandita dalla fatica e dalla fede, ma anche ricca di umanità. È un’opera che ci ammalia con la semplicità e al tempo stesso ci fa riflettere su quanta strada abbiamo percorso da quei tempi, e su quanto di quella vita, forse, abbiamo perso per sempre.
Così, passeggiando tra le mura di questa villa abbandonata, il pensiero torna a quel film e alle storie che racconta. E mi chiedo se, in realtà, il nome “Villa del Mezzadro” non sia poi così fuori luogo. Forse non si tratta di un errore, ma di un omaggio involontario a quel mondo contadino che, pur non appartenendo a queste stanze, ne è stato in qualche modo plasmato. Un mondo che vive ancora, sospeso tra memoria e immaginazione, nelle storie che ci portiamo dentro.



















































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